Sui primi contrafforti alpini, nella parte alta e medioevale di Biella, un giardino che conserva due anime ben distinte: quella di fine Seicento- inizio Settecento, scenograficamente affacciata sulla città, e quella paesaggistica, insolitamente racchiusa tra le facciate del palazzo. L’attuale sintesi, grazie al restauro curato dai proprietari Mori Ubaldini degl’Alberti La Marmora, non solo ha esaltato questa duplice genesi, ma inaugurato una nuova fase attenta ai cambiamenti climatici e al valore museale del complesso.
Nel borgo fortificato del Piazzo, creato dal Vescovo di Vercelli Uguccione nel 1160, i Ferrero possedettero dal XIV secolo vari edifici attigui con terreni degradanti verso la piana. Fu Sebastiano a fine Quattrocento a introdurre in queste terre il gusto rinascimentale, costruendo una scenografica architettura che dialogasse con la Basilica di San Sebastiano da lui fatta erigere ai piedi dell’altura: la torre ottagonale e il terrapieno che sorregge i giardini, allora ospitante una grotta, testimoniano di quel periodo. Nel tardo Seicento Tommaso Felice trasformò le muraglie che terrazzavano le pendenze nelle sette rampe che ancora ammiriamo, cinte da bossi e con spalliere di alberi da frutto, iris ed emerocalli contro i muraglioni. Il culmine di questo riassetto paesaggistico che costituiva un vero riferimento visivo per la città bassa fu raggiunto nel 1715, quando Francesco Celestino creò il monumentale ninfeo loggiato attorno all’antica grotta. I giardini all’italiana sovrastanti, geometrici, cinti da balaustre e raffigurati in un affresco tardo secentesco nel Palazzo e ancora in un rilievo del 1789 (quando fu incaricato l’architetto Filippo Castelli di progettare la facciata neoclassica verso la via), lasciarono invece il posto a una sistemazione all’inglese a metà Ottocento. Mentre i fratelli La Marmora diventavano protagonisti del Risorgimento italiano, le donne di famiglia e in particolare la moglie scozzese di Alfonso, Jane Bertie Mathew, plasmarono le atmosfere romantiche che in parte sopravvivono ancora oggi: i prati curvilinei sapientemente baulati, gli stradini in ghiaia scura, il boschetto di lagerstroemie, le aiuole di rose e annuali, quest’ultime ormai sostituite con bordi misti di perenni. Grandi alberi filtravano le viste verso valle e solo al termine dei percorsi si giungeva sulla terrazza belvedere. La morte del faggio purpureo, della magnolia grandiflora e del cedro dell’Atlante nella seconda metà del secolo scorso (sopravvivono un tasso e un liriodendro) hanno radicalmente mutato il gioco di chiaroscuri e la scelta di non sostituirli fa parte della filosofia del recente restauro, che ha ripristinato la prospettiva aperta sul paesaggio fin dalla casa. Il recupero degli stradini andati perduti, del ruscello ormai interrato e della vasca hanno accentuato il carattere ottocentesco, ma un filare di melograni e un grande tondo in lose di pietra per ricordare il centro degli antichi parterres offrono una testimonianza del giardino originale.
Questo giardino è stato oggetto di un intervento di restauro e valorizzazione grazie ai fondi del PNRR